Ivano Mugnaini. Recensione al libro di poesia “Echi e sussurri”, Polistampa “Sagittaria”, Firenze 2015

ECHI E SUSSURRI safe_image[4]

 

Il titolo del libro contiene un primo segno, un’indicazione, una rotta per orientarci in un mondo multiforme, fatto di zone geografiche interiori ed esteriori, epoche e luoghi diversi e un sistema speculare e sofisticato che consente di osservare un medesimo punto da diverse angolazioni, confrontando i lati di una stessa luna, individuando analogie e confronti, spostamenti di asse, rotazioni e rivoluzioni. Alla fine, dagli accostamenti e dalle sovrapposizioni di un’ampia gamma di istantanee, simboli, metafore e oggetti del vivere concreto, ricaviamo una visione d’insieme, un quadro in cui ogni singolo attimo è, simultaneamente, se stesso e una progressione diacronica, realtà e simbolo, verità e poesia.

Gli echi a cui fa riferimento il titolo rappresentano la persistenza, i sussurri la lievità. Il riferimento a una dimensione acustica richiama l’atto e potremmo l’arte dell’ascolto, l’esercizio del sentire, e non è un caso che il verbo “sentire” connoti sia la percezione di suoni e voci sia l’interiorizzazione delle sensazioni e degli stati d’animo. Così come il suono percorre lo spazio e ne assume la forma e la consistenza, così, allo stessa maniera, i versi di questo volume riassumono e ricalcano cadenze, ritmi, canti, e quindi liriche antiche, trasportandoli prima nel mondo interiore dell’autrice poi facendoli riecheggiare, mutati, resi attuali, nel presente. In un sussurro che è espressione della volontà di non profanare la sacralità della poesia, le radici antiche della melodia, e, al contempo, ricerca di intimità, di un’espressione  raccolta, sincera.

All’ingresso del libro, sulla porta, a darci il primo saluto e a far da viatico, troviamo Rilke, e, al suo fianco, Orfeo. L’epigrafe, tratta dai Sonetti ad Orfeo, ci ricorda che siamo orecchi che ascoltano, e il riferimento alla dimensione acustica è ulteriormente ribadito, ma aggiungendovi la concretezza vivida di un corpo lacerato, le bocche che divorano le membra del sacro, del divino. Orfeo è il canto, la poesia. Il tempo, il dolore, la ferocia, lo fanno a pezzi. Questo libro, come ogni libro di versi scritti con autentica partecipazione, è, in fondo, un progetto di ricomposizione, una ricucitura paziente. Le parole sono carne lacerata, tessere di un mosaico che, per confronti e scarti, vanno ricollocate nella posizione adeguata.

I primi strumenti utilizzati da Giorgina Busca Gernetti, la lente e il compasso, sono il linguaggio e il modello. Il mondo classico è il punto di riferimento privilegiato. Sia per gli studi dell’autrice, per la sua attività di insegnante, ma anche e soprattutto per sua naturale inclinazione. Ben lungi da essere una fuga dalla realtà, o un’improbabile ricerca di un’Arcadia, la classicità qui diventa un metodo di confronto e di esplorazione, una bussola antica per muoversi nelle acque del presente, dell’oggi. La prima lirica, “Alla sera”, è indicativa in quest’ottica: vi sono echi e cadenze foscoliane, a loro volta radicate in arcipelaghi di suoni a cadenze elleniche, ma alla fine il discorso è del tutto individuale, così come la collocazione nel distico finale delle parole scritte in corsivo: sull’orme/ che vanno al nulla eterno. Ineludibili, perentorie. Il sussurro si fa grido, negazione assoluta. Porta chiusa, come accadrà regolarmente in questa sezione iniziale del libro, a speranze e illusioni. La sera sfocia, qui, nel nero uniforme della notte. Poco più avanti, nella poesia “La clessidra”, si ha l’impressione di ascoltare versi tradotti dal Monti, i grandi poemi omerici riecheggiano, per accenti e cadenze. Ma è negato spazio, qui ed ora, perfino alla speranza ultima dea, non c’è nemmeno l’attesa di un intervento benevolo di qualche nume che abbia simpatia o pietà per i dispersi tra le onde e nei gorghi. Il viaggio ha come sbocco: “un baratro oscuro, un nero abisso”. E, staccato, isolato anch’esso, solo e abbandonato, il verso finale: “Abisso che sprofonda in un abisso”. Possente, assoluta privazione. In questa prima parte del libro non c’è luce, porto o terraferma su cui sbarcare, non c’è fato che possa mutare gli accadimenti in bene. Neppure la poesia  può fare da riva o da sponda su cui gettarsi per salvarsi. La poesia è nell’abisso, qui. Anzi, è l’abisso. Eppure, per ritrovarsi, ha bisogno di perdersi, di annegare. Senza sconti, né scorciatoie retoriche.

Vi sono nel libro alcuni vocaboli ricorrenti. Fanno da chiave di interpretazione e da pietre miliari. Li ritroviamo nelle diverse fasi, nei capitoli ideali di questo racconto in versi. E in ogni sezione sono identiche e mutate, come se ciascuna racchiudesse in sé il momento in cui viene pronunciata ma anche il prima e il dopo, gli eventi e i mutamenti che ne costituiscono, momento per momento, l’essenza. Tra queste parole chiave ne emergono una serie: “luce”, “solitudine”, “silenzio”, tanto per citarne alcune, considerando sempre, assieme ad esse, tutta l’area semantica coinvolta, i sinonimi e i contrari. I chiaroscuri, è il caso di dirlo, le tonalità, le ombre, i riflessi, gli sprazzi di chiarore si oppongono al buio.

Nella lirica “Abisso”, sempre contenuta nella prima parte, la luce viene definita “ingannevole”, aggiungendo una connotazione che nega, o almeno sposta l’asse verso risvolti psicologici, non meramente visivi. Nella lirica accanto, solo un passo oltre, una considerazione perentoria: “Essere soli. Averne il coraggio”. Itaca è lontana. Qui è ancora chimera, porto puramente immaginario. Ciò che persiste, e che l’autrice annota senza edulcorarlo, è “Silenzio intorno, buia solitudine”. A differenza di molte liriche consolatorie di vari poeti di diverse epoche, la Gernetti trova il coraggio di descrivere l’assenza, darle voce e corpo: “Non c’è finestra nel muro del carcere./ Solo un’erta parete invalicabile”. Il “no” montaliano, qui è più assoluto, non mitigato neppure dalla consapevolezza amara della coscienza dell’inesprimibile. Qui l’espressione esiste, ma solo nella funzione della descrizione del vuoto. Un vuoto privo di sbocchi vitali. La sola consistenza è quella del muro che opprime.

Entra in scena, nella pagina a fianco, un altro compagno di viaggio dell’autrice, Cesare Pavese. Rilke fa da padrone di casa, in questo libro, aprendo con la sua riflessione in versi ciascuna delle sezioni che lo compongono. Cesare Pavese è un’altra figura di riferimento, specchio nello specchio di parole e immagini, ricordi e dimensione onirica. “Ho dato poesia agli uomini”. È questa la frase di Pavese che l’autrice pone a sigillo della sua lirica dal titolo “La tomba”. L’accostamento è di per sé emblematico. Un grido muto, eppure lacerante. Con Pavese l’autrice identifica una fratellanza profonda, manifestata in modo sobriamente addolorato, come forse lo stesso scrittore piemontese avrebbe gradito. “Un uomo solo verso un altro solo”, è la fulminante sintesi. Quasi un epitaffio che accomuna il trascorrere crudo del tempo, “la scorza rugosa, gialliccia, increspata/ come ingiallita pagina”. Il poeta non dissemina parole, il poeta è le sue parole. Quindi così come la sua vita è la sua pagina, la sua tomba è scorza ingiallita. E, alla fine di tutto, ogni ricerca di senso sfocia in silenzio e solitudine. Perché la vera domanda, la ricerca più costante di Pavese è stata l’amore. Mai realmente trovato, enigma mai risolto. Da qui il buio, l’oscurità della vita che conduce dopo migliaia di corse e rincorse solamente nel gorgo dove si scende, muti. Luce, voce e significato dell’esistere qui ancora latitano. Prevale il loro contrario. E neppure guardandosi alle spalle si vede qualcosa. Perfino ieri è un vocabolo spento. Non c’è neppure una leopardiana o pascoliana consolazione in una favolosa fanciullezza, del mondo o dell’individuo.

Da qui la riflessione dell’autrice che arriva a pensare che sia auspicabile anche per lei un silenzio eterno. Viene negato quindi anche l’atto stesso del dire, fosse pure per negare, per manifestare il nulla. Contraddizione di termini di sicuro interesse: per poter negare il senso della parola e perfino della stessa poesia necessitano parole e versi. La negazione nega se stessa. E da qui, da questo corto circuito, prende vita, nella lirica di pagina 29, il primo varco, una fessura nel muro: l’accettazione di una condivisione, fosse pure la condivisione del dolore: “dolente anima mia/ sola non sei in questa sofferenza/ di tormentati esuli”.

Il “cupio  dissolvi”, è un passo ulteriore e necessario. L’esplorazione del mondo del sogno è una tappa fondamentale: l’essere diventa impalpabile, si perde la dimensione corporea, il corpo è “veste/ vuota” e lo spirito “vaga libero/ oltre le bianche nuvole”. Il muro invalicabile è superato, seppure nell’ambito dell’irrealtà, dell’esistere immaginario. Si ragiona, nelle liriche di pagina 32 e 33 sul legame tra sonno e sogno, con gli innumerevoli rimandi letterari tra cui spicca l’immenso Amleto, la sua meditazione sulla volontà e la paura di inoltrarsi nel più ignoto dei territori. La risposta è una non risposta, coerentemente: domina, con una ricorrenza ossessiva, quasi un mantra al contrario, la parola “silenzio”.

La prima sezione si chiude con omaggi a odi memorabili, “Alla luna” e “Alla notte”. Spazia, l’autrice, in diverse epoche e nazioni. Ma ogni riferimento è rivissuto e attualizzato, non è mai meramente estetico o esornativo.

Nella sezione successiva un Angelo, con la sua presenza tangibile, con il suo corpo, muta di colpo la notte in luce. Gli stessi oggetti, potremmo dire le stesse parole -oggettivate che un istante prima erano e trasmettevano oscurità qui si e ci rischiarano. E compaiono, all’istante, vocaboli prima ignoti, impensabili: sereno, chiaria, risveglio, lieve, rugiada. La luce è impegnata in un duello con la notte che ancora vorrebbe persistere, e con lei, il dubbio, e il nulla. È, questa, la fase dei contrasti, delle lotte, dei chiaroscuri: “Io sono tutto e nulla”, osserva la Gernetti, e, con cadenze che assumono ritmi da rito religioso di passaggio, dà voce ad un salmo di purificazione, come se il buio, gradualmente potesse e dovesse essere lavato via. E quando ritorna Pavese, l’invocazione a lui è diversa: “Cesare mio. Riprendo la mia penna/ la parola che sboccia nel mio animo/ vibrante a nuova vita”. La sezione si chiude con un accostamento di termini che prima sembrava impensabile: la poesia, come pioggia, torna ad irrorare “amorosi sentimenti”.

Da qui si può ripartire, il viaggio diventa reale, i luoghi concreti. Ma l’incontro con il mondo impone nuove domande, dubbi, incertezze. Riemerge il punto interrogativo. Perfino nella bellezza della natura, di fronte al mare di Capo Palinuro, viene fatto di chiedersi “Solo nel buio luce?”. Torna anche la consapevolezza che ogni luogo, dentro e fuori, è duplice, bifronte. Come la Maremma, terra di morte e bellezza, resina odorosa e malaria. La vita, qui e ovunque, è fiore ed è roccia. Il mutare della luce porta di volta in volta a intuizioni e sensazioni contrastanti, e, nel momento descritto, a “l’amore per la vita, pur se effimera”. Luce e tramonto, il mare nero, e una citazione petrarchesca “solo e pensoso”. La poesia qui si abbandona alla comprensione dei contrasti, ossia del non comprensibile, se non nella irriducibile duplicità. La musica è quella del vento sul mare: contiene innumerevoli voci e suoni, amore e lamento.

“Tutta di verde mi voglio vestire”, scriveva D’Annunzio. E, seppure per qualche istante, anche l’autrice si abbandona al vento e alla musica, una sensazione panica accompagnata dalle note di Das Lied in Grünen di Schubert e dai colori degli iris di Monet. Qui è Penelope, che, per un po’, si abbandona all’ebbrezza del naufragio, scordando tutto, perfino Ulisse. E il suo sogno diventa meridiano, ad occhi aperti. Resta la nostalgia per la terra dell’infanzia, ma l’animo aspira a fondersi con l’infinito.  In questi frangenti il ricordo dell’autrice va ai papaveri dell’infanzia. “Li componevo”, scrive, ed è un abbinamento con la poesia in grado di dare corpo e colore alla memoria. Un ricordo che qui può farsi lineare, quasi fanciullesco, nei versi dedicati agli animali con cui si è instaurato un dialogo basato su una naturalezza atavica, lontana dalle miserie dell’età adulta.

Nella sezione “Immagini elleniche” la Grecia descritta è patrimonio di ricordi e miti, ma anche e soprattutto punto di riferimento costante, pane quotidiano, della mente e del cuore. È patria elettiva, non solo per gli studi e per gli infiniti spunti letterari e filosofici. La Grecia è una voce che sussurra e chiama a sé, ed è meraviglia la sensazione di non sentirsi stranieri. I personaggi della Storia si affiancano a quelli del Mito e tutti diventano figure familiari, parenti, fratelli, consolazione e ferita dell’animo, in un dialogo immaginario eppure vivissimo. “Vita e morte, rinascita e ancor morte”. È la sintesi dei secoli del mondo classico, ma è anche un sunto delle varie zone ed epoche emotive di cui è costituito questo libro: luce e buio, sogno e veglia, morte e rinascita costanti. Non è un caso, che solo qui, nel suo amnios ideale, nel mondo ellenico, l’autrice incontri una certezza, sola come un’isola in un vasto mare: “un’aureola di luce/ risplende nella gara contro il Tempo/ che le cose distrugge e non può spegnere/ la voce del poeta”.

Tutto ciò a dispetto (o forse proprio in virtù) della consapevolezza dell’assenza ineluttabile di certezze: “Vorrei avere anch’io una mia Itaca,/ una meta sicura del mio vivere,/ del mio vagare senza rotta certa/ alla deriva verso oscuro abisso”. Itaca è solo un’ipotesi, come la luce, come il mare, come il tragitto. E, quasi senza dolore, l’autrice si rivolge alla mitica poetessa greca dicendole: “Anch’io, dolce mia Saffo, vorrei essere morta!”.

Come in una composizione ad anello la sezione finale si ricollega alla prima. Confermando anche l’elaborato complesso di contrapposizioni a cui si è fatto cenno sopra, e il gioco di chiaroscuri che illuminano per preziosi istanti attimi di comprensione e di verità. “Il canto di Orfeo” apre e chiude il libro. Nel canto, nell’ascesa, un nuovo inizio. Il silenzio, il segno, la metamorfosi. La voce, sembra  sussurrarci con vivida forza Giorgina Busca Gernetti nelle liriche di questo suo intenso libro, può spegnersi nel fitto buio di una notte eterna, ma, nel sangue di Orfeo, nella lotta per la bellezza di un libero poetico canto, c’è un urlo di trionfo. Nonostante tutto, “Ovunque è poesia. Eterno è Orfeo”.

 Ivano Mugnaini

 

Giorgina Busca Gernetti, Echi e sussurri, Edizioni Polistampa, collana Sagittaria, Firenze 2015

Ivano Mugnaini è eccellente critico, narratore e poeta

Pubblicato dall’Autore in La recherche come articolo, secondo le regole dell’Amministrazione

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Informazioni su Giorgina Busca Gernetti

Amo la poesia, la musica classica, la danza classica, il canto lirico, l'arte, l'archeologia, i fiori, gli animali e il mare. Compongo poesie fin dall'adolescenza, benché abbia iniziato tardi a pubblicarle. Scrivo anche racconti, recensioni o saggi artistico-letterari. Sono nata a Piacenza e mi sono laureata con lode in Lettere Classiche all’Università Cattolica del S. Cuore di Milano. Sono stata docente d’Italiano e Latino nel Liceo Classico di Gallarate, città dove tuttora vivo. Ho studiato pianoforte presso il Conservatorio Musicale di Piacenza. Sono stata socia di Centri culturali prestigiosi come il “Pannunzio” di Torino, “Novecento Poesia” di Firenze e l’“Accademia Internazionale d’Arte Moderna” di Roma. Ho pubblicato dieci libri di cui otto di poesie Ho pubblicato per Genesi di Torino i libri di poesia "Asfodeli" (1998), "La luna e la memoria" (2000), "Ombra della sera" (2002) e "Parole d’ombraluce" (2006); per le Edizioni del Leone di Venezia il libro "Onda per onda" con prefazione di Paolo Ruffilli (2007); per Youcanprint il libro di poesie d'amore "Amores" con introduzione dal "Simposio" di Platone (2014). Mi sono state pubblicate come 1° premio quattro sillogi di poesie: "Nell’isola dei miti", ALAPAF, Bagheria 1999; "La luna e la memoria", Edizioni del Cenacolo, La Spezia 2000, poi confluita nell’omonimo libro maggiore; "La memoria e la parola", ETS – Il Portone Letteraria, Pisa 2005; "L’anima e il lago", con prefazione di Giuseppe Panella della Scuola Normale Superiore di Pisa, Pomezia-Notizie, Pomezia 2010; seconda edizione con Nota dell'autrice e Rassegna critica per Youcanprint, Lecce 2012 . Il mio saggio critico "Itinerario verso il 27 agosto 1950" è stato pubblicato nel 2009 dal Centro “Pannunzio”, nei suoi “Annali” 2008/2009, per il Centenario della nascita di Cesare Pavese. Per la Puntoacapo Editrice di Novi Ligure ho pubblicato nel 2011 un inserto di sette racconti nell’Almanacco Dedalus n. 1 ("Sette storie al femminile"). Nel 2012 ho pubblicato in volume singolo il saggio pavesiano "Itinerario verso il 27 agosto 1950" per le Edizioni Youcanprint di Lecce. Le "Sette storie al femminile", con Prefazione di A.G. Pessina e Nota dell'Autrice, sono uscite in volume individuale per Youcanprint, Lecce 2013. Nel 2014 ho pubblicato per Youcanprint il libro di poesie tutte d'amore intitolato "Amores", con introduzione di Platone dal "Simposio". Nel 2015 è uscito per Polistampa, collana "Sagittaria", il mio libro di poesia "Echi e sussurri", con prefazione del prof. Marco Onofrio e postfazione-nota editoriale del prof. Franco Manescalchi. Bellissime recensioni Mie poesie, talora tradotte in varie lingue straniere, qualche racconto e saggio artistico-letterario figurano in riviste e antologie anche per la scuola. Sono stata inclusa in alcune storie della letteratura contemporanea e in varie opere di critica letteraria. Eminenti critici hanno espresso giudizi di consenso sulla mia poesia e narrativa. *************** Questo blog non è una "testata" giornalistica e non è aggiornato con regolare periodicità. Privo dei due requisiti che lo dovrebbero contraddistinguere, non può pertanto considerarsi un "prodotto editoriale" ex lege 7/3/2001, n.62. Non è quindi soggetto alle disposizioni e agli obblighi previsti dagli art.2 e art.5 della Legge n.47/1948.
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