Roberto Rossi Testa. Un ricordo

Roberto Rossi Testa (*)nato il 17 settembre 1956 a Torino, vi ha vissuto e lavorato finché non si è trasferito a San Raffaele Cimena, dove è morto il 28 gennaio 2016. 
In poesia partecipò all’opera collettiva Pharmakos (Torino 1984) e pubblicò le raccolte Stanze della mia Sposa (Hellas, Firenze, 1988), Poca luce (Nino Aragno Editore, Torino, 2002), da cui è tratta La notte dell’impresa Eunoè. Poesie 1988-1995 (Manni Editori, Lecce, 2005), Sposa del vento. Poesie 1984-2004 (Aragno, Torino, 2007) e Poesie per un no (Aragno, Torino, 2010). Collaborò inoltre a numerose riviste sia italiane che estere, fra cui L’anello che non tiene (cfr.  Pentecostepoi riedita in Eunoè), PoesiaSchemaTesto a fronteYale Italian Poetry (cfr.  Grazie).
In prosa pubblicò il libro di racconti Storie di dèi e di animali (Petrini, Torino, 1995), da cui sono riprodotti sul nostro sito Il toro bianco Il cigno di Leda.
Collaborò al blog letterario La Poesia e lo SpiritoUna sua silloge intitolata La notte dell’impresa è scaricabile in forma di libro elettronico all’indirizzo http://www.larecherche.it/public/poesia2punto0/La_notte_dell_impresa_di_Roberto_Rossi_Testa.pdf. Sue poesie sono presenti anche all’indirizzo http://www.italian-poetry.org/rossi_testa_roberto.html.

Svolse un’intensa attività editoriale come traduttore e curatore, in primo luogo di testi poetici e di opere riguardanti il mondo arabo-islamico, la critica letteraria e d’arte (da Tagore a Gibrân, da Ortega a Huysmans, da Ibn `Arabî a Blake). Nel 2007 uscì la sua traduzione del Latino mistico di Remy de Gourmont (Aragno, Torino), e nel 2008 uscì quella de L’Interprete delle Passioni («Tarjumân al-Ashwâq») di Ibn `Arabî (Urra-Apogeo, Milano, con prefazione di Gianni De Martino), opere per cui profuse grande impegno. 

Su SuperZeko sono presenti sue traduzioni da Percy Bysshe ShelleyAlfred TennysonYounis TawfikWilliam Blake e Jaufré Rudel, nonché la sua versione  integrale de L’Interprete delle Passioni («Tarjumân al-Ashwâq») di Muhyî-d-Dîn ibn al-`Arabî  (cfr. parte I – parte II – parte III – parte IV). 

Poco prima di morire ha pubblicato la sua ultima opera di poesia: Il sole della notte, alla chiara fonte editore, Lugano, gennaio 2016.
(*) Per l'anagrafe è Roberto Rossi, ma dal 1989 firmò i suoi lavori con l'aggiunta del cognome materno al fine di evitare confusioni con omonimi.

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Agostino Arrivabene ” I sette giorni di Orfeo” — Il Canto delle Muse

l'eta' della innocenza

Tanti i riferimenti che si riscontrano nella pittura dell’artista lombardo Agostino Arrivabene, classe 1967: da Leonardo Da Vinci, ai maestri rinascimentali, a Dürer, Rembrandt, Gustave Moreau e i preraffaelliti. Personalissimo il risultato, tra onirico surreale e simbolismo, che si osserva nei dipinti di Arrivabene. Qui il suo sito per approfondirne la conoscenza: http://www.agostinoarrivabene.it/ Ho inserito […]

Agostino Arrivabene ” I sette giorni di Orfeo” — Il Canto delle Muse

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Le cariatidi di Atene: tra storia e mito

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Arrivederci, Roberto

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Uno strano preludio

l'arte dei pazzi

Siamo all’inizio del Simposio. Socrate è diretto a casa di Agatone, dove è atteso per una cena «a tema». Il «tema» di stasera, lo sappiamo, sarà il più equivoco che si possa trattare. Tanto per dire: di che cosa parleranno i commensali, di Amore o di Desiderio? Eros-arciereL’equivoco, come si può constatare, è già nel «titolo» della Sceneggiata che si va a recitare. Sui manifesti sta scritto che il «tema» è Eros: passa uno e ci legge «Amore», passa un altro e intende «Desiderio».
Il Simposio di Platone è, dunque, anzitutto la testimonianza di un’ambiguità imperante già ai suoi tempi. Ed è proprio questa ambiguità che i commensali stasera sono chiamati, tra un brindisi e l’altro, a disambiguare – con quali risultati è poi tutto da vedere. Eros era già per i Greci un enigma. Il più equivoco dei «codici», già allora.

Ma seguiamo il copione platonico. Socrate è…

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Il simbolismo della Spirale: la Via Lattea, la conchiglia, la “rinascita”

𝐀𝐗𝐈𝐒 ֎ 𝐌𝐔𝐍𝐃𝐈

Avendo analizzato nei mesi scorsi [cfr. Culti cosmico-agrari dell’antica Eurasia] una serie di riti, miti e deità connessi alla tematica della rinascita cosmica, vogliamo in questo appuntamento e nei prossimi concentrare la nostra attenzione su alcuni simboli, cui abbiamo già accennato, che l’uomo arcaico riconobbe come immagini in grado di elevarlo escatologicamente verso la comprensione di tale mistero.

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LE OLIMPIADI ANTICHE

vociantiche

I GIOCHI FUNEBRI IN ONORE DI PATROCLO

Iniziamo questo percorso sulle Olimpiadi, partendo da lontano, dai versi dell’Iliade. Ben prima delle Olimpiadi, infatti, i Greci già gareggiavano tra loro. Lo facevano durante i funerali, per onorare il morto. Sono testimonianza di ciò i giochi in onore di Patroclo, descritti nell’Iliade. Per lui si tennero le gare dei cavalli, la lotta, la corsa, il tiro con l’arco…

Qui di seguito abbiamo riportato dei versi: i primi si riferiscono alla corsa dei cavalli; i secondi alla lotta (si scontrano Odisseo e Aiace Telamonio).

“Quelli tutti insieme alzarono sui cavalli le fruste
e li colpirono con le briglie e con parole li incitarono
con foga; e i cavalli correvano veloci attraverso la pianura,
allontanandosi dalle navi in un lampo: sotto il loro petto, la polvere
si sollevava, alzandosi come le nuvole nella tempesta,
mentre le criniere si agitavano tra i soffi del vento”.

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Ο Αριστοτέλης, η διαίρεση της ψυχής και το ζήτημα της ηθικής αρετής

ΑΡΧΑΙΩΝ ΤΟΠΟΣ

Εφόσον κατά τον Αριστοτέλη η εκπλήρωση της αρετής είναι η απαρέγκλιτη προϋπόθεση της ευδαιμονίας, δε μένει τίποτε άλλο παρά να οριστεί αυτό που ονομάζουμε αρετή: «Αφού λοιπόν η ευδαιμονία είναι ενέργεια της ψυχής σύμφωνη με την τέλεια αρετή, πρέπει τώρα να μιλήσουμε για την αρετή. Ίσως με τον τρόπο αυτό θα μπορέσουμε, επίσης, να διακρίνουμε ακόμη καλύτερα την ουσία της ευδαιμονίας». (1102a 13, 6-9).

Εξάλλου, και η έννοια της πολιτικής – στην ορθή εκδοχή της κι όχι ως συμφεροντολογική στρέβλωση – δεν έχει άλλη επιλογή από το συσχετισμό με την αρετή: «Όλοι, άλλωστε, το παραδέχονται ότι και ο γνήσιος, ο αληθινός πολιτικός για την αρετή κοπιάζει κατά κύριο λόγο. Πραγματικά, αυτό που θέλει ο πολιτικός είναι να κάνει τους πολίτες αγαθούς και υπάκουους στους νόμους». (1102a 13, 9-12).

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Miti greci sulle origini della vite e del vino

Studia Humanitatis - παιδεία

di G. Samorini, Miti greci sulle origini della vite e del vino

Internamente alla cultura greca si è soliti associare il vino a Dioniso e in effetti diversi miti ellenistici sull’origine del vino vedono coinvolta questa figura del pantheon olimpico. Tuttavia, né Dioniso era inizialmente associato al vino (si veda ad esempio Samorini – Camilla, 1995), né la scoperta del vino è contemporanea all’arrivo di questa divinità presso i Greci. Come dimostrano i dati archeobotanici, la scoperta del vino è di gran lunga antecedente la formazione della cultura greca classica e anche arcaica.
Probabilmente i miti più antichi sono quelli che non associano la scoperta del vino a Dioniso; miti di cui ci sono pervenuti solo pochi e dispersi elementi. In uno di questi, un ceppo di vite fu partorito da un animale, una cagna, come riportato da un passo dei Deipnosophistaedi Ateneo (scritto negli anni 192-195 d.C.):

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Segugi dell’invisibile. Storie di cani sulla tomba dei padroni (parte I)

Il classicista

Gira su internet un video d’animazione imperdibile per chi ama i cani. Si intitola “How dogs smell” e il suo testo è opera di Alexandra Horowitz, autrice di un trattato scientifico sull’argomento: Inside of a Dog: What Dogs See, Smell, and Know.

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L’ “appassionata speranza”- Incontro con Giorgio Bàrberi Squarotti (II Parte).

perìgeion

a cura di Silvia Rosa

2016-10-15-17-08-53-1

[…] Io non
vedo nulla, vecchia anima talpa che così poco scava dentro di sé, e
preferisce le voci d’altri i libri d’altri i cataloghi gli archivi […]”

da Tre soli anni, 1974
in La quarta triade (Spirali , Milano 2000)

Il tempo in cui s’acqueta a poco a poco
la luce, muta in modo insensibile colore,
c’è una linea nera in mezzo a quello spazio,
il ramo diritto che trema a un vento immaginato,
a tratti, scrive un breve arco d’ombra:
quella è tutta la vita, tutta la storia, tutti
i possibili eventi, e lo sguardo li specchia
in questa idea che perfetta li compendia.

L’idea, 1992

in La quarta triade. Poesie (Spirali, Milano 2002)

“[…] contempla, prima che mescoli il vento
la folla, gli autobus, le vie affannate,
le acque del fiume maculato, i primi
eventi del dolore, le colombe

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9 aprile 2017: la scomparsa di Giorgio Bàrberi Squarotti. Un ricordo di Marco Onofrio

Del cielo stellato

OLYMPUS DIGITAL CAMERA Giorgio Bàrberi Squarotti presso la sede della casa editrice Edilazio (22 ottobre 2012)

Due giorni fa è morto nella sua Torino Giorgio Bàrberi Squarotti, l’ultimo decano della critica letteraria novecentesca. EdiLet ha avuto l’onore e il piacere di pubblicargli due libri: le poesie de Il giullare di Nôtre-Dame des Neiges (2010) e i saggi critici Pascoli, la bicicletta e il libro (2012). L’ho conosciuto personalmente grazie ad Aldo Onorati, che me lo presentò a Roma, in un caffè all’aperto di Piazza Navona: era il già lontano autunno del 2009. Ho avuto con lui altre tre occasioni di incontro: due a Roma (ricordo in particolare le presentazioni dei suoi saggi pascoliani all’Università “Tor Vergata” e ai Licei “J. Joyce” di Ariccia e “I. Newton” di Roma, nonché un memorabile convivio in un ristorante sul lungolago di Albano, dove ebbi modo di apprezzare anche le sue doti di gourmet) e una…

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Ivano Mugnaini. Recensione al libro di poesia “Echi e sussurri”, Polistampa “Sagittaria”, Firenze 2015

ECHI E SUSSURRI safe_image[4]

 

Il titolo del libro contiene un primo segno, un’indicazione, una rotta per orientarci in un mondo multiforme, fatto di zone geografiche interiori ed esteriori, epoche e luoghi diversi e un sistema speculare e sofisticato che consente di osservare un medesimo punto da diverse angolazioni, confrontando i lati di una stessa luna, individuando analogie e confronti, spostamenti di asse, rotazioni e rivoluzioni. Alla fine, dagli accostamenti e dalle sovrapposizioni di un’ampia gamma di istantanee, simboli, metafore e oggetti del vivere concreto, ricaviamo una visione d’insieme, un quadro in cui ogni singolo attimo è, simultaneamente, se stesso e una progressione diacronica, realtà e simbolo, verità e poesia.

Gli echi a cui fa riferimento il titolo rappresentano la persistenza, i sussurri la lievità. Il riferimento a una dimensione acustica richiama l’atto e potremmo l’arte dell’ascolto, l’esercizio del sentire, e non è un caso che il verbo “sentire” connoti sia la percezione di suoni e voci sia l’interiorizzazione delle sensazioni e degli stati d’animo. Così come il suono percorre lo spazio e ne assume la forma e la consistenza, così, allo stessa maniera, i versi di questo volume riassumono e ricalcano cadenze, ritmi, canti, e quindi liriche antiche, trasportandoli prima nel mondo interiore dell’autrice poi facendoli riecheggiare, mutati, resi attuali, nel presente. In un sussurro che è espressione della volontà di non profanare la sacralità della poesia, le radici antiche della melodia, e, al contempo, ricerca di intimità, di un’espressione  raccolta, sincera.

All’ingresso del libro, sulla porta, a darci il primo saluto e a far da viatico, troviamo Rilke, e, al suo fianco, Orfeo. L’epigrafe, tratta dai Sonetti ad Orfeo, ci ricorda che siamo orecchi che ascoltano, e il riferimento alla dimensione acustica è ulteriormente ribadito, ma aggiungendovi la concretezza vivida di un corpo lacerato, le bocche che divorano le membra del sacro, del divino. Orfeo è il canto, la poesia. Il tempo, il dolore, la ferocia, lo fanno a pezzi. Questo libro, come ogni libro di versi scritti con autentica partecipazione, è, in fondo, un progetto di ricomposizione, una ricucitura paziente. Le parole sono carne lacerata, tessere di un mosaico che, per confronti e scarti, vanno ricollocate nella posizione adeguata.

I primi strumenti utilizzati da Giorgina Busca Gernetti, la lente e il compasso, sono il linguaggio e il modello. Il mondo classico è il punto di riferimento privilegiato. Sia per gli studi dell’autrice, per la sua attività di insegnante, ma anche e soprattutto per sua naturale inclinazione. Ben lungi da essere una fuga dalla realtà, o un’improbabile ricerca di un’Arcadia, la classicità qui diventa un metodo di confronto e di esplorazione, una bussola antica per muoversi nelle acque del presente, dell’oggi. La prima lirica, “Alla sera”, è indicativa in quest’ottica: vi sono echi e cadenze foscoliane, a loro volta radicate in arcipelaghi di suoni a cadenze elleniche, ma alla fine il discorso è del tutto individuale, così come la collocazione nel distico finale delle parole scritte in corsivo: sull’orme/ che vanno al nulla eterno. Ineludibili, perentorie. Il sussurro si fa grido, negazione assoluta. Porta chiusa, come accadrà regolarmente in questa sezione iniziale del libro, a speranze e illusioni. La sera sfocia, qui, nel nero uniforme della notte. Poco più avanti, nella poesia “La clessidra”, si ha l’impressione di ascoltare versi tradotti dal Monti, i grandi poemi omerici riecheggiano, per accenti e cadenze. Ma è negato spazio, qui ed ora, perfino alla speranza ultima dea, non c’è nemmeno l’attesa di un intervento benevolo di qualche nume che abbia simpatia o pietà per i dispersi tra le onde e nei gorghi. Il viaggio ha come sbocco: “un baratro oscuro, un nero abisso”. E, staccato, isolato anch’esso, solo e abbandonato, il verso finale: “Abisso che sprofonda in un abisso”. Possente, assoluta privazione. In questa prima parte del libro non c’è luce, porto o terraferma su cui sbarcare, non c’è fato che possa mutare gli accadimenti in bene. Neppure la poesia  può fare da riva o da sponda su cui gettarsi per salvarsi. La poesia è nell’abisso, qui. Anzi, è l’abisso. Eppure, per ritrovarsi, ha bisogno di perdersi, di annegare. Senza sconti, né scorciatoie retoriche.

Vi sono nel libro alcuni vocaboli ricorrenti. Fanno da chiave di interpretazione e da pietre miliari. Li ritroviamo nelle diverse fasi, nei capitoli ideali di questo racconto in versi. E in ogni sezione sono identiche e mutate, come se ciascuna racchiudesse in sé il momento in cui viene pronunciata ma anche il prima e il dopo, gli eventi e i mutamenti che ne costituiscono, momento per momento, l’essenza. Tra queste parole chiave ne emergono una serie: “luce”, “solitudine”, “silenzio”, tanto per citarne alcune, considerando sempre, assieme ad esse, tutta l’area semantica coinvolta, i sinonimi e i contrari. I chiaroscuri, è il caso di dirlo, le tonalità, le ombre, i riflessi, gli sprazzi di chiarore si oppongono al buio.

Nella lirica “Abisso”, sempre contenuta nella prima parte, la luce viene definita “ingannevole”, aggiungendo una connotazione che nega, o almeno sposta l’asse verso risvolti psicologici, non meramente visivi. Nella lirica accanto, solo un passo oltre, una considerazione perentoria: “Essere soli. Averne il coraggio”. Itaca è lontana. Qui è ancora chimera, porto puramente immaginario. Ciò che persiste, e che l’autrice annota senza edulcorarlo, è “Silenzio intorno, buia solitudine”. A differenza di molte liriche consolatorie di vari poeti di diverse epoche, la Gernetti trova il coraggio di descrivere l’assenza, darle voce e corpo: “Non c’è finestra nel muro del carcere./ Solo un’erta parete invalicabile”. Il “no” montaliano, qui è più assoluto, non mitigato neppure dalla consapevolezza amara della coscienza dell’inesprimibile. Qui l’espressione esiste, ma solo nella funzione della descrizione del vuoto. Un vuoto privo di sbocchi vitali. La sola consistenza è quella del muro che opprime.

Entra in scena, nella pagina a fianco, un altro compagno di viaggio dell’autrice, Cesare Pavese. Rilke fa da padrone di casa, in questo libro, aprendo con la sua riflessione in versi ciascuna delle sezioni che lo compongono. Cesare Pavese è un’altra figura di riferimento, specchio nello specchio di parole e immagini, ricordi e dimensione onirica. “Ho dato poesia agli uomini”. È questa la frase di Pavese che l’autrice pone a sigillo della sua lirica dal titolo “La tomba”. L’accostamento è di per sé emblematico. Un grido muto, eppure lacerante. Con Pavese l’autrice identifica una fratellanza profonda, manifestata in modo sobriamente addolorato, come forse lo stesso scrittore piemontese avrebbe gradito. “Un uomo solo verso un altro solo”, è la fulminante sintesi. Quasi un epitaffio che accomuna il trascorrere crudo del tempo, “la scorza rugosa, gialliccia, increspata/ come ingiallita pagina”. Il poeta non dissemina parole, il poeta è le sue parole. Quindi così come la sua vita è la sua pagina, la sua tomba è scorza ingiallita. E, alla fine di tutto, ogni ricerca di senso sfocia in silenzio e solitudine. Perché la vera domanda, la ricerca più costante di Pavese è stata l’amore. Mai realmente trovato, enigma mai risolto. Da qui il buio, l’oscurità della vita che conduce dopo migliaia di corse e rincorse solamente nel gorgo dove si scende, muti. Luce, voce e significato dell’esistere qui ancora latitano. Prevale il loro contrario. E neppure guardandosi alle spalle si vede qualcosa. Perfino ieri è un vocabolo spento. Non c’è neppure una leopardiana o pascoliana consolazione in una favolosa fanciullezza, del mondo o dell’individuo.

Da qui la riflessione dell’autrice che arriva a pensare che sia auspicabile anche per lei un silenzio eterno. Viene negato quindi anche l’atto stesso del dire, fosse pure per negare, per manifestare il nulla. Contraddizione di termini di sicuro interesse: per poter negare il senso della parola e perfino della stessa poesia necessitano parole e versi. La negazione nega se stessa. E da qui, da questo corto circuito, prende vita, nella lirica di pagina 29, il primo varco, una fessura nel muro: l’accettazione di una condivisione, fosse pure la condivisione del dolore: “dolente anima mia/ sola non sei in questa sofferenza/ di tormentati esuli”.

Il “cupio  dissolvi”, è un passo ulteriore e necessario. L’esplorazione del mondo del sogno è una tappa fondamentale: l’essere diventa impalpabile, si perde la dimensione corporea, il corpo è “veste/ vuota” e lo spirito “vaga libero/ oltre le bianche nuvole”. Il muro invalicabile è superato, seppure nell’ambito dell’irrealtà, dell’esistere immaginario. Si ragiona, nelle liriche di pagina 32 e 33 sul legame tra sonno e sogno, con gli innumerevoli rimandi letterari tra cui spicca l’immenso Amleto, la sua meditazione sulla volontà e la paura di inoltrarsi nel più ignoto dei territori. La risposta è una non risposta, coerentemente: domina, con una ricorrenza ossessiva, quasi un mantra al contrario, la parola “silenzio”.

La prima sezione si chiude con omaggi a odi memorabili, “Alla luna” e “Alla notte”. Spazia, l’autrice, in diverse epoche e nazioni. Ma ogni riferimento è rivissuto e attualizzato, non è mai meramente estetico o esornativo.

Nella sezione successiva un Angelo, con la sua presenza tangibile, con il suo corpo, muta di colpo la notte in luce. Gli stessi oggetti, potremmo dire le stesse parole -oggettivate che un istante prima erano e trasmettevano oscurità qui si e ci rischiarano. E compaiono, all’istante, vocaboli prima ignoti, impensabili: sereno, chiaria, risveglio, lieve, rugiada. La luce è impegnata in un duello con la notte che ancora vorrebbe persistere, e con lei, il dubbio, e il nulla. È, questa, la fase dei contrasti, delle lotte, dei chiaroscuri: “Io sono tutto e nulla”, osserva la Gernetti, e, con cadenze che assumono ritmi da rito religioso di passaggio, dà voce ad un salmo di purificazione, come se il buio, gradualmente potesse e dovesse essere lavato via. E quando ritorna Pavese, l’invocazione a lui è diversa: “Cesare mio. Riprendo la mia penna/ la parola che sboccia nel mio animo/ vibrante a nuova vita”. La sezione si chiude con un accostamento di termini che prima sembrava impensabile: la poesia, come pioggia, torna ad irrorare “amorosi sentimenti”.

Da qui si può ripartire, il viaggio diventa reale, i luoghi concreti. Ma l’incontro con il mondo impone nuove domande, dubbi, incertezze. Riemerge il punto interrogativo. Perfino nella bellezza della natura, di fronte al mare di Capo Palinuro, viene fatto di chiedersi “Solo nel buio luce?”. Torna anche la consapevolezza che ogni luogo, dentro e fuori, è duplice, bifronte. Come la Maremma, terra di morte e bellezza, resina odorosa e malaria. La vita, qui e ovunque, è fiore ed è roccia. Il mutare della luce porta di volta in volta a intuizioni e sensazioni contrastanti, e, nel momento descritto, a “l’amore per la vita, pur se effimera”. Luce e tramonto, il mare nero, e una citazione petrarchesca “solo e pensoso”. La poesia qui si abbandona alla comprensione dei contrasti, ossia del non comprensibile, se non nella irriducibile duplicità. La musica è quella del vento sul mare: contiene innumerevoli voci e suoni, amore e lamento.

“Tutta di verde mi voglio vestire”, scriveva D’Annunzio. E, seppure per qualche istante, anche l’autrice si abbandona al vento e alla musica, una sensazione panica accompagnata dalle note di Das Lied in Grünen di Schubert e dai colori degli iris di Monet. Qui è Penelope, che, per un po’, si abbandona all’ebbrezza del naufragio, scordando tutto, perfino Ulisse. E il suo sogno diventa meridiano, ad occhi aperti. Resta la nostalgia per la terra dell’infanzia, ma l’animo aspira a fondersi con l’infinito.  In questi frangenti il ricordo dell’autrice va ai papaveri dell’infanzia. “Li componevo”, scrive, ed è un abbinamento con la poesia in grado di dare corpo e colore alla memoria. Un ricordo che qui può farsi lineare, quasi fanciullesco, nei versi dedicati agli animali con cui si è instaurato un dialogo basato su una naturalezza atavica, lontana dalle miserie dell’età adulta.

Nella sezione “Immagini elleniche” la Grecia descritta è patrimonio di ricordi e miti, ma anche e soprattutto punto di riferimento costante, pane quotidiano, della mente e del cuore. È patria elettiva, non solo per gli studi e per gli infiniti spunti letterari e filosofici. La Grecia è una voce che sussurra e chiama a sé, ed è meraviglia la sensazione di non sentirsi stranieri. I personaggi della Storia si affiancano a quelli del Mito e tutti diventano figure familiari, parenti, fratelli, consolazione e ferita dell’animo, in un dialogo immaginario eppure vivissimo. “Vita e morte, rinascita e ancor morte”. È la sintesi dei secoli del mondo classico, ma è anche un sunto delle varie zone ed epoche emotive di cui è costituito questo libro: luce e buio, sogno e veglia, morte e rinascita costanti. Non è un caso, che solo qui, nel suo amnios ideale, nel mondo ellenico, l’autrice incontri una certezza, sola come un’isola in un vasto mare: “un’aureola di luce/ risplende nella gara contro il Tempo/ che le cose distrugge e non può spegnere/ la voce del poeta”.

Tutto ciò a dispetto (o forse proprio in virtù) della consapevolezza dell’assenza ineluttabile di certezze: “Vorrei avere anch’io una mia Itaca,/ una meta sicura del mio vivere,/ del mio vagare senza rotta certa/ alla deriva verso oscuro abisso”. Itaca è solo un’ipotesi, come la luce, come il mare, come il tragitto. E, quasi senza dolore, l’autrice si rivolge alla mitica poetessa greca dicendole: “Anch’io, dolce mia Saffo, vorrei essere morta!”.

Come in una composizione ad anello la sezione finale si ricollega alla prima. Confermando anche l’elaborato complesso di contrapposizioni a cui si è fatto cenno sopra, e il gioco di chiaroscuri che illuminano per preziosi istanti attimi di comprensione e di verità. “Il canto di Orfeo” apre e chiude il libro. Nel canto, nell’ascesa, un nuovo inizio. Il silenzio, il segno, la metamorfosi. La voce, sembra  sussurrarci con vivida forza Giorgina Busca Gernetti nelle liriche di questo suo intenso libro, può spegnersi nel fitto buio di una notte eterna, ma, nel sangue di Orfeo, nella lotta per la bellezza di un libero poetico canto, c’è un urlo di trionfo. Nonostante tutto, “Ovunque è poesia. Eterno è Orfeo”.

 Ivano Mugnaini

 

Giorgina Busca Gernetti, Echi e sussurri, Edizioni Polistampa, collana Sagittaria, Firenze 2015

Ivano Mugnaini è eccellente critico, narratore e poeta

Pubblicato dall’Autore in La recherche come articolo, secondo le regole dell’Amministrazione

http://www.larecherche.it/testo.asp?Id=1732&Tabella=Articolo

 

 

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Maria Grazia Ferraris. Recensione a “Echi e sussurri”

ECHI E SUSSURRI safe_image[4]

 

L’ultimo ricco e significativo libro di poesia di Giorgina Busca Gernetti (64 poesie), dal titolo Echi e sussurri ( stampato dalle edizioni Polistampa nel 2015), si articola in cinque sezioni ( Fiori della notte, Alba dell’anima, Seduzioni, Immagini elleniche, il canto di Orfeo) : un arco di emozioni, riflessioni, ricordi, sentimenti, canti lirici che si inseguono nella memoria, nello spazio e nel tempo e che muovono dal biografico (in particolare le prime due sezioni) per allargarsi alla originale rielaborazione del paesaggio (vicino e lontano, quotidiano e onirico) e del mito greco, fino a culminare con la meditazione su Orfeo: la eterna poesia. Un vero itinerario spirituale.
Fa da guida ad esergo di ogni sezione una citazione di poesie di R.M.Rilke: fascinosa dotta presentazione del libro che diventa quasi una prova di costruzione strutturale per la colta scrittrice. Accompagnano- le belle citazioni- tutto l’itinerario, segnando l’alveo culturale nel quale si muove la sua nuova poesia.
Un esempio: “Tutto seduce. L’uccello più minuto. il fiore cerca spazio…e quante cose non esige il vento?”, posto all’inizio della sezione SEDUZIONI oppure “ Orfeo canta! ..E tutto tacque. Ma anche in quel tacere/ fu nuovo inizio, segno e metamorfosi”, ad esergo de IL CANTO DI ORFEO.
Già le prime poesie della raccolta fanno esemplarmente da apripista al mondo e ai sentimenti della poetessa: la sera, l’inverno gelido, il buio: sentimenti melanconici e desolati che si allargano via via fino ad includere il tema esistenziale della fragilità, del dubbio, della solitudine, del silenzio, del tempo inesorabile, fino l’abisso nero che ci aspetta.
In questo itinerario c’è l’espressione consapevole della ricerca conoscitiva dell’autrice, corroborata dalle citazioni colte (in primis il Foscolo, di Rilke si è detto): “Quando scendi invocata/o cara sera amica… sulla mia sorte, nel vagar sull’orme/ che vanno al nulla eterno”, e dallo stile piano, metricamente curato, che ci fa dotti delle sue letture e frequentazioni classiche, anche nel gusto della sobrietà, nella scelta privilegiata dell’endecasillabo, della misura, della parola controllata, dell’armonia che allontana ogni rischio di enfasi: “Essere soli. Averne il coraggio,/ resistere, serrati dentro a un carcere,/ alle lusinghe del mondo…”. E via con citazioni rielaborate e condivise che accarezzano il cuore di chi frequenta le case dei Poeti: “Solo e pensoso sulla rena d’oro/il mare viola il poeta contempla…(Il poeta esule), “Riluce il tremolar della marina/ dinanzi a me…” (Le voci del silenzio), “Per l’antico tratturo verso valle/-erbal fiume silente-/la lunga schiera soffice discende…(NOSTALGIA DELLE GREGGI). Difficilissima operazione quella di mutare in versi la cultura, la conoscenza, la ricerca metafisica se non si possiedono saggezza e umiltà, studio e consapevolezza autocritica. Qui l’operazione è debitamente riuscita.
Lo sguardo si allarga, si stratifica sfrondando l’inutile e il contingente per raccogliere con orecchio allenato il particolare, le sfumature, le voci segrete, i brividi, i misteri e per elevarsi, elisa ogni interferenza troppo umana, sfuggendo ai baratri spaventosi dell’umano sentire, ad orizzonti ampi, forse irraggiungibili di metafisiche meditazioni (in particolare nelle poesie di Immagini elleniche). La musica e l’armonia, la spiritualità e la cultura, i colori e i sogni svelano con discrezione il mistero del poeta, il seduttore musico dell’arcano e del canto orfico.

Una scelta di poesie ad esempio:

ALBA DELL’ANIMA

Nel lucore dell’alba
l’anima lieve si libra nell’aria
– tenera foglia danzante nel vento –
candida e pura, dall’ombra mondata
degli angosciosi tormenti di ieri.

Fresca rugiada sull’erba, sui rami
dei meli in fiore, dei mandorli e peschi,
tutto ristora, disseta, risveglia,
rafforza e fiero vigore v’infonde
per la lotta del vivere.

Rugiada scende limpida nell’anima
– puro lavacro in sacrosanto rito –
e pace effonde, luce più serena,
intima forza ad affrontare il giorno
senza tetri timori.

LA MIA PIANURA

Amara nostalgia della mia terra
piana, per vaste lande senza limiti,
senz’orizzonte certo, mai immobile
per essere raggiunto dallo sguardo.

Sconfinata pianura dell’Emilia
distesa al sole, invasa dalla nebbia,
lambita dal maestoso lento fiume
con silente carezza alla sua sponda.

Dorata dalle spighe di frumento
-musica serenante delle reste
ondeggianti nel vento carezzevole-
quando l’estate viene a offrire doni.

Mare di spighe, di vigneti ed alberi
di frutti variopinti, profumati,
gioielli di bellezza inimitabile.
Snza mai fine la pianura fertile.

Con lei mi fondo, anch’io senza orizzonte
certo, ben definito, teso l’animo
all’infinito vago, irraggiungibile,
unica meta per il mio vagare.

TYRRHENUS

Il dio Tirreno m’accoglie paterno
tra le sue sacre braccia cristalline.
Ecco di nuovo i pesci a me d’intorno
guizzanti senza tema
del corpo mio di terrestre creatura.

Nel giorno torrido della Canicola
improvvisa una gelida corrente
per donarmi frescura m’accarezza
nell’azzurro tepore dell’abbraccio
di Tirreno divino.

Acqua, mia amica limpida e fedele,
eccomi nel tuo grembo
più sicura e serena che tra gli uomini
sulla terra, creature indifferenti,
incuranti di chi vive tra loro.

Nel tuo grembo materno, acqua, ritrovo
il caldo affetto troppo raramente
goduto per gli abbracci degli umani
nella mia triste infanzia solitaria,
muta di luce e amore.

IL PIANTO DI ORFEO

Che fare solo, dove mai andare
dove mai trascinarsi senza lei,
due volte a lui rapita, amata sposa?
Fredda, già navigava nella lieve
piccola barca stigia verso l’Ade.
Orfeo si lamentò per sette mesi
sotto una aerea rupe presso l’onda
del solitario Strìmone, negli antri
gelidi, con la lira e il triste canto
tigri ammansendo e trascinando querce
con l’angosciante, arcana sua poesia
di sciamano che incanta e smuove pietre.

Come dolente un usignuolo piange
nell’ombra fitta d’un frondoso pioppo
i figli suoi perduti, ancora implumi,
rapiti da un crudele zappatore
che li scoprì nel nido, i becchi aperti
in attesa del cibo e della madre;
essa piange la notte sul suo ramo,
di giorno il canto doloroso e il pianto
rinnova e riempie ogni luogo dintorno
di lamenti, così l’affranto Orfeo,
della lira le corde accarezzando,
canta dolente una mesta poesia.

L’ETERNO CANTO DI ORFEO

Ovunque è poesia. Ovunque guardi
con animo commosso ed occhio attento
al più piccolo fiore tra le pietre
sbocciato a stento, ma con vital forza
d’aprirsi un varco, d’innalzarsi al cielo,
c’è poesia fiorente intorno ai petali
come intenso profumo in primavera.

Orfeo risorto, non mai morto Orfeo.
Perenne il canto suo nella natura,
nel cielo, nelle stelle, nella luna
piena, calante, oppure nuova e tacita
nella valle, o crescente sopra i colli
come sottile falce all’orizzonte.
Ovunque è poesia. Eterno è Orfeo.

*

Maria Grazia Ferraris

Pubblicato nel Blog del Poeta Prof. Nazario Pardini Alla volta di Leucade

http://nazariopardini.blogspot.it/2017/02/maria-grazia-ferraris-su-echi-e.html?spref=fb

 

 

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